Buon inizio settimana a tutti!
Questo racconto mi frullava già da un po' in testa. In parte legato alla mia fede e al mio bisogno di abbattere il cinismo degli ultimi tempi, spero di cuore che possiate apprezzarlo.
La speranza di una Dea
(racconto n.24)
Essere una
divinità non è certo una cosa facile.
Purtroppo, a differenza di quello che molti pensano, non si tratta solo
di essere venerati e fare a gara con gli altri Dei per vedere chi ha più
seguaci (anche perché ormai quel Gesù ha la vittoria in tasca da duemila anni).
Gestire
questo mondo ormai sta diventando sempre più difficile e di solito sono gli
umani a complicarci di continuo le cose. Non fanno altro che rendere tutto ancora
più problematico di quanto già non sia.
Per una
divinità femminile poi cercare di aiutarli sembra quasi impossibile.
Una volta le
antiche popolazioni celtiche credevano molto in me. Le loro preghiere mi
arrivavano come una marea di voci piene di speranza.
Adesso non
mi arrivano che flebili sussurri carichi di tristezza e rimpianto. Sono così
pochi quelli ancora capaci di credere in me che potrei andarmene in giro per le
loro strade affollate senza che loro si accorgano minimamente della mia
presenza tra loro.
Per questo
ogni tanto lo faccio. Assumo forma umana e me ne vado in giro nelle loro città
in cerca di una ragione, un motivo per cui potrebbe valere la pena di
continuare a occuparsi di questo mondo.
Trovai quel
motivo per puro caso.
Mi trovavo
in una delle più grosse metropoli umane e stavo attraversando la strada senza
badare molto a ciò che mi accadeva attorno. La mia mente infatti si trovava
altrove, in un ospedale dove una giovane donna stava invocando il mio nome con
tutta se stessa.
Fu allora che scorsi un auto venirmi incontro
a tutta velocità. Non me ne preoccupai. In fondo non poteva certo uccidermi
anzi al massimo si sarebbe ribaltata su se stessa e accartocciata come una
foglia secca.
Ma questo l’umano
che mi aiutò non poteva certo saperlo.
Si lanciò
verso di me, senza badare a cosa gli sarebbe potuto succedere, spingendomi via
poco prima che l’auto mi falciasse.
La vettura
non colpì me, ma travolse lui a una velocità spaventosa. Cadde in un coma che i
medici umani definirono “irreversibile”.
Quel suo
sacrificio mi toccò più di tutte le preghiere del mondo. Solo per quello valeva
davvero la pena continuare a vegliare sul mondo anche senza seguaci o rituali
in mio nome.
Perciò
decisi di ricambiare il gesto di bontà che quell’umano aveva avuto per me. Per
questo, quando riaprì gli occhi, egli mi vide negli sguardi felici di tutte le
persone a lui care.
Perché a
volte un miracolo non è un dono solo per chi lo riceve.
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